La violenza sulle donne è un problema sempre più diffuso e urgente che avviene non solo sulle strade o in ambienti pubblici, ma soprattutto tra le mura domestiche di cui poco si sa e pochissimo emerge: difatti, circa il 95% delle violenze non viene denunciato permettendo così il reiterarsi della violenza. Diventa così importante una conoscenza, la più vasta possibile, per una sensibilizzazione che permetta la visione e la presa in carico del problema, di cui paiono finalmente occuparsi anche i mass media.
Bisogna tener presente che molta violenza rimane sommersa, non segnalata alle autorità, per paura, vergogna o scarsa consapevolezza. Le coppie che decidono di rivolgersi ad uno psicologo, rappresentano la punta dell’iceberg del fenomeno, trattandosi di coppie uscite allo scoperto e già disposte nei confronti della terapia. Tuttavia, il lavoro terapeutico con la coppia violenta è particolarmente complesso perché comporta che al centro dell’attenzione vi sia la relazione, prima ancora che la violenza: un approccio spesso difficile da affrontare per le vittime e gli autori dell’abuso, riluttanti ad accettare un’analisi della loro relazione dal punto di vista psicologico.
Gli obiettivi del trattamento si raggiungono in una triplice sequenza:
L'attività psicologica e sanitaria, quando affronta la paziente con problemi di violenza, ha una mission particolare: costruire uno strumento di difesa che spieghi cosa sia successo in quel "luogo chiuso" che è la famiglia, coniugando il racconto dei fatti con i vissuti della donna, rappresentati dalle reazioni psichiche indirizzate alla gestione dei macro e micro traumi quotidiani.
Spesso è proprio la presa di consapevolezza dei propri diritti e del proprio valore, a fungere da scatenamento degli impulsi aggressivi da parte dell’uomo. Le indagini statistiche sul fenomeno segnalano che a commettere le violenze più gravi sono soprattutto i partner o gli ex partner.
Nei casi di violenza quello che si forma è come un’anestesia della parte, come una forma cronica di irrigidimento muscolare: l’unica difesa è il blocco, il fermarsi, il bloccarsi: non c’è figura-sfondo ma estraneazione, il fermare l’immagine. Si crea una forma di modo monotono il cui scopo è quello di non rendere più il “percepibile”. Per cui è difficile, a volte le cose vengono fuori spontaneamente a volte è bene fare presente che ci sono degli schemi corporei, lavori di consapevolezza che servono per portare alla coscienza una parte mancante, rimossa. Quest’ultima cosa si può far rientrare in un discorso più generale che è quello dello shock del trauma percepito e la risposta è sempre la paralisi.
Il seguente tempo logico è quello della contingenza: “è quello che cessa di non scriversi”. In questo caso, è l'istante dello sguardo. In questo istante la propria immagine riflessa in uno specchio o nello sguardo o nella voce del piccolo altro, offre una Gestalt che consente di ricomporre due rappresentazioni che fino ad allora erano rimaste disgiunte. Si potrebbe pensare che quell'immagine si riduce a Uno più a, laddove l'oggetto a compare come un oggetto di scarto, un oggetto di rifiuto. L'urlo, lo sguardo di spavento, svelano l'orrore; l'assunzione della propria immagine produce una trasformazione che coincide con il “tempo per comprendere”. In questo tempo si passa dal “una donna viene picchiata” a “io sono picchiata”.
Ma lui, l'uomo che picchia, può cambiare? Può da un giorno all'altro cambiare sintomo? Molte donne ne sono convinte. Anche perché lui sovente si pente e chiede perdono e giura che non lo farà più. Perfino se sono passati dieci, quindici anni nei quali gli episodi di violenza si sono presentati regolarmente, pensano di sì, può darsi che questa sia la volta buona e che lui la smetta. Questa credenza sospende qualunque azione e le mantiene nello stesso godimento.
Per l'uomo la sensazione di perdere il controllo sull’altro è seguita dagli scoppi d’ira che, temendo di essere abbandonato, può adottare delle strategie pre-simboliche di tipo fisico, basate sull’azione.
Gli uomini che esercitano violenza sulle donne provano, dopo questi episodi, calma, calo di tensione, come il «ripristino di una Gestalt interiore», uno strano stato di tranquillità.
Una calma che è risultato della riuscita distruzione dell’indipendenza psichica della donna che finisce per essere, ancora una volta, solo il veicolo dei processi proiettivi patologici del suo partner. E’ una guerra che ha un obiettivo immediato: annientare, ridurre al silenzio la donna che ha osato alzare la testa: eliminare la donna che ha imprudentemente,dolorosamente, pericolosamente tentato di esercitare il proprio diritto di individuo a essere qualcosa di più che una discarica per le emozioni intollerabili del partner.
Bisogna tener presente che molta violenza rimane sommersa, non segnalata alle autorità, per paura, vergogna o scarsa consapevolezza. Le coppie che decidono di rivolgersi ad uno psicologo, rappresentano la punta dell’iceberg del fenomeno, trattandosi di coppie uscite allo scoperto e già disposte nei confronti della terapia. Tuttavia, il lavoro terapeutico con la coppia violenta è particolarmente complesso perché comporta che al centro dell’attenzione vi sia la relazione, prima ancora che la violenza: un approccio spesso difficile da affrontare per le vittime e gli autori dell’abuso, riluttanti ad accettare un’analisi della loro relazione dal punto di vista psicologico.
Gli obiettivi del trattamento si raggiungono in una triplice sequenza:
- . conoscendo l'intreccio tra salute e diritti delle donne, ovvero tra reazioni traumatiche e azioni costrittive, afflittive e mortificative della libertà e della dignità personale;
- 2. utilizzando strumenti appropriati alla valutazione dell'apparente contiguità tra donna e violenza,tra vittima e carnefice.
- 3. sostenendo le donne nel reintegrare il loro patrimonio identitario, danneggiato da una relazione violenta. Questo passaggio avviene in due step: il primo è rendere la donna consapevole del trauma subìto, del ruolo di vittima incolpevole e dei funzionamenti post-traumatici; successivamente, sostenerla nella conquista della responsabilità di azione e padronanza nel mondo, nella comprensione del suo ruolo di vittima che è stato solo situazionale e che, una volta fuori dal legame traumatico, potrà cambiare.
L'attività psicologica e sanitaria, quando affronta la paziente con problemi di violenza, ha una mission particolare: costruire uno strumento di difesa che spieghi cosa sia successo in quel "luogo chiuso" che è la famiglia, coniugando il racconto dei fatti con i vissuti della donna, rappresentati dalle reazioni psichiche indirizzate alla gestione dei macro e micro traumi quotidiani.
Spesso è proprio la presa di consapevolezza dei propri diritti e del proprio valore, a fungere da scatenamento degli impulsi aggressivi da parte dell’uomo. Le indagini statistiche sul fenomeno segnalano che a commettere le violenze più gravi sono soprattutto i partner o gli ex partner.
Nei casi di violenza quello che si forma è come un’anestesia della parte, come una forma cronica di irrigidimento muscolare: l’unica difesa è il blocco, il fermarsi, il bloccarsi: non c’è figura-sfondo ma estraneazione, il fermare l’immagine. Si crea una forma di modo monotono il cui scopo è quello di non rendere più il “percepibile”. Per cui è difficile, a volte le cose vengono fuori spontaneamente a volte è bene fare presente che ci sono degli schemi corporei, lavori di consapevolezza che servono per portare alla coscienza una parte mancante, rimossa. Quest’ultima cosa si può far rientrare in un discorso più generale che è quello dello shock del trauma percepito e la risposta è sempre la paralisi.
Il seguente tempo logico è quello della contingenza: “è quello che cessa di non scriversi”. In questo caso, è l'istante dello sguardo. In questo istante la propria immagine riflessa in uno specchio o nello sguardo o nella voce del piccolo altro, offre una Gestalt che consente di ricomporre due rappresentazioni che fino ad allora erano rimaste disgiunte. Si potrebbe pensare che quell'immagine si riduce a Uno più a, laddove l'oggetto a compare come un oggetto di scarto, un oggetto di rifiuto. L'urlo, lo sguardo di spavento, svelano l'orrore; l'assunzione della propria immagine produce una trasformazione che coincide con il “tempo per comprendere”. In questo tempo si passa dal “una donna viene picchiata” a “io sono picchiata”.
Ma lui, l'uomo che picchia, può cambiare? Può da un giorno all'altro cambiare sintomo? Molte donne ne sono convinte. Anche perché lui sovente si pente e chiede perdono e giura che non lo farà più. Perfino se sono passati dieci, quindici anni nei quali gli episodi di violenza si sono presentati regolarmente, pensano di sì, può darsi che questa sia la volta buona e che lui la smetta. Questa credenza sospende qualunque azione e le mantiene nello stesso godimento.
Per l'uomo la sensazione di perdere il controllo sull’altro è seguita dagli scoppi d’ira che, temendo di essere abbandonato, può adottare delle strategie pre-simboliche di tipo fisico, basate sull’azione.
Gli uomini che esercitano violenza sulle donne provano, dopo questi episodi, calma, calo di tensione, come il «ripristino di una Gestalt interiore», uno strano stato di tranquillità.
Una calma che è risultato della riuscita distruzione dell’indipendenza psichica della donna che finisce per essere, ancora una volta, solo il veicolo dei processi proiettivi patologici del suo partner. E’ una guerra che ha un obiettivo immediato: annientare, ridurre al silenzio la donna che ha osato alzare la testa: eliminare la donna che ha imprudentemente,dolorosamente, pericolosamente tentato di esercitare il proprio diritto di individuo a essere qualcosa di più che una discarica per le emozioni intollerabili del partner.