Intervista a Erminio Gius: la sua vita e il suo ultimo libro
Erminio Gius, sacerdote e frate francescano cappuccino, è ricercatore, psicologo e docente di Psicologia Sociale presso l’Università di Padova.
Ha collaborato con molte università di spicco internazionale: Oxford, Harvard University, Georgetown University (Washington), Boston University e Melbourne University.
Persona di immensa sapienza nel campo delle neuroscienze, in questa lunga intervista ci racconta del suo ultimo libro “Compassione”, di alcuni suoi progetti di ricerca e delle sue esperienze internazionali.
Erminio Gius, sacerdote e frate francescano cappuccino, è ricercatore, psicologo e docente di Psicologia Sociale presso l’Università di Padova.
Ha collaborato con molte università di spicco internazionale: Oxford, Harvard University, Georgetown University (Washington), Boston University e Melbourne University.
Persona di immensa sapienza nel campo delle neuroscienze, in questa lunga intervista ci racconta del suo ultimo libro “Compassione”, di alcuni suoi progetti di ricerca e delle sue esperienze internazionali.
Unisce il rigore scientifico di un ricercatore ad una profonda umanità e spirito di accoglienza tipici della vocazione religiosa.
È nato 81 anni fa a Malosco in val di Non e la sua «avventura» inizia con la Licenza in Teologia nella Pontificia Università Lateranense di Roma nel 1966 e nell’Ateneo di Padova dove si forma alla scuola di Carlo Diano, Marino Gentile, Dino Formaggio e Paolo Bozzi con il quale si laurea in Filosofia nel 1970.
È autore di ben 27o pubblicazioni e nel 2002 è stato nominato “Trentino dell’anno: Una vita per la cultura”.
È membro del Comitato Consultivo di Bioetica della Regione Veneto e Presidente del Comitato etico per le attività sanitarie dell’Azienda Provinciale per i Servizi Sanitari della Provincia Autonoma di Trento
Ci spieghi del suo ultimo libro “Compassione”
«Nell’Antico Testamento si sovrappone Misericordia e Compassione. L’essenza di Dio è la misericordia. Come ricercatore sono convinto che l’uomo non è misericordioso. Egli non è stato progettato per la misericordia, ma per la sua conservazione. Prova ad accedere all’ambito della misericordia perché la sua mente è compassionevole. Nel libro ci sono quindi due tematiche: il dolore (la nostra mente sente ed avverte il dolore altrui) e la compassione. La tesi fondamentale è che l’uomo non è misericordioso, bensì compassionevole.
Sulla base di questo c’è un prologo che utilizza l’Antico Testamento per parlare di compassione dal punto di vista epistemologico. Si basa sulla fondazione della dialettica e sulla libertà della persona. Punto d’inizio è la disobbedienza di Adamo ed Eva, che ha permesso all’uomo di poter accedere alla conoscenza diversamente dal paradiso terrestre».
È quindi una conoscenza improntata principalmente sull’agire dell’uomo?
«Sì. È una conoscenza della propria identità e realtà. Nel momento in cui è accaduto il peccato originale, Dio va a cercare Adamo, che preferisce nascondersi. È lì che l’uomo scopre la differenza di genere e la vergogna intesa come precarietà e fragilità».
Come è strutturato il libro?
«Il libro è strutturato in due parti: la prima parte è una trilogia (tre capitoli) che riguarda le dinamiche intrafamiliari. È una rappresentazione completa di come la compassione agisca all’interno delle relazioni familiari. Prendo come spunto la parabola del figliol prodigo e il quadro di Rembrandt “Ritorno del figliol prodigo (nel quadro c’è l’immagine del padre che poggia due mani sul figliol prodigo, una mano maschile e una femminile, con il significato della compresenza).
Il primo capitolo è quindi il problema dell’attaccamento e della compassione. Il secondo capitolo riguarda il potere e l’autorità rappresentata dalla figura paterna (il dilemma del dover cambiare/non poter cambiare), e il terzo capitolo è sul figlio maggiore (nel dipinto di Rembrandt è disegnato come una figura distaccata). Il significato che assume nel quadro, così come nel libro, rappresenta la pluralità dei rapporti e la resistenza al cambiamento.
Nella seconda parte prendo come spunto la parabola del buon samaritano. Questa parte riguarda quattro capitoli che sono il frutto del lavoro sulle neuroscienze e sulla ricerca prosociale.
Parlo del tema della giustizia, e in particolare sul dilemma se sia meglio il buono o il giusto. C’è inoltre uno sguardo sul dolore innocente, in particolare la compassione come possibilità di una carta etica ideale mondiale che regoli i rapporti intrapersonali».
Quindi la compassione può ridurre il dolore esistenziale?
«Si, la compassione diventerebbe terapia».
Questa sofferenza deriva da un agire dell’uomo problematico e senza linee guida?
«Sì. Io lavoro utilizzando le categorie psicoanalitiche, non con lo sguardo di un sociologo, ma di un ricercatore che indaga i lati oscuri della mente. Quelli che impediscono alla compassione di essere autentica. C’è una parte nel libro che si intitola “i lati oscuri della mente” dove dico che, lì dove apparentemente possa esserci compassione, ci sono aspetti interiori devastanti da quelle persone che controllano sé stessi attraverso atti compassionevoli.
Questo libro è stato per me come una specie di testamento accademico, perché penso che il tema della compassione sia l’unico tema che può essere introdotto per regolare i rapporti».
Lei si è occupato anche di altri temi come l’omosessualità
«Sì. Ho attraversato molti temi di attualità e di cui sono stato antesignano. Sull’omosessualità sono stato il primo a parlarne, perché al tempo, era il 1972, non se ne parlava. Non era nemmeno conosciuto. In teologia c’era un capitolo sulla perversione, ma non c’erano testi in italiano. Ho lavorato a Oxford dove mi avevano chiesto di interessarmi a questa tematica. Ho sviluppato questo tema con un po’ di innocenza (ride ndr); oggi non lo affronterei più perché sta avendo uno sviluppo troppo complesso. La Sacra Rota di Roma lo accolse molto bene, e mi chiesero di andare oltre: di lavorare sugli aspetti dell’omosessualità come un impedimento dirimente in matrimonio (non può esserci il matrimonio)».
Parlare di omosessualità nell’ambito religioso poteva essere un problema per lei?
«Si. Il lavoro è stato però accettato e molto apprezzato. È stato un libro di aiuto per molti omosessuali visto che la società non li accettava. Io non ho mai avuto problemi ad affrontare queste tematiche, perché sono dell’idea che per essere religioso bisogna avere anche una maturità scientifica».
Questo libro è stato fatto per far vedere loro che potevano essere compresi?
«Sì, infatti è stato accettato soprattutto per questo fatto. Ho avuto un contenimento umanistico».
È stato antesignano di altre tematiche?
«Sì. A Trento mi avevano incaricato di fare una ricerca sulla condizione giovanile della tossicodipendenza. Allora (meta anni ‘70) anche di questo tema non si sapeva nulla. Ho dovuto lavorare a vista.
Inoltre sono stato sollecitato, anche se non volevo, ad accettare un incarico sull’interruzione di gravidanza (aborto). Non lo volevo accettare perché qualsiasi realtà che sarebbe uscita fuori dalla mia ricerca ero convinto non venisse presa in considerazione in quanto prete. In realtà è stata una bellissima ricerca dal punto di vista psicodinamico, e il libro si chiama “Maternità negata”. È stato fatto tramite delle interviste con alcune donne. Il tutto accompagnato da una letteratura fantasmatica.
La terza ricerca è stata fatta sull’AIDS. Ho sviluppato questa ricerca prendendo due quotidiani italiani (Il Corriere della sera e La Repubblica)e alcune riviste internazionali, e ho fatto un’analisi del contenuto nell’arco di 4 anni di tutti gli articoli che parlassero di AIDS. Volevo capire qual era l’immagine che la gente si faceva. Ho scoperto che al tempo era paragonata alla peste. Il libro frutto delle ricerche si intitola “AIDS. Una realtà inquietante”.
Un altro aspetto che ho trattato è la condizione delle persone in stato vegetativo. È stata la prima ricerca internazionale fatta in tre anni e ha riguardato come i familiari stretti vivano e modifichino il loro vissuto con un familiare in stato vegetativo. È una realtà sospesa, che noi non conosciamo per niente. Si parla di minimi stati di coscienza.
A questa ricerca ho lavorato con 13 ricercatori, e avevo ricevuto circa 400mila euro, troppo pochi per un progetto del genere. Questa ricerca ha misurato i processi di cambiamento nel tempo di quei vissuti sospesi, e i familiari anticipavano sul personale quello che sarebbe il vissuto del marito. È stata molto utile perché ha dato uno sguardo sulla gestione di queste realtà. Quello che stiamo studiando ora con l’Università di Padova riguarda il capire che tipo di linguaggio possa esistere in queste persone. La mia ipotesi è questa: noi parliamo di cervello inconscio per intendere quella parte di cervello che prende su di sé i vissuti arcaici. È probabile che quando la moglie parli o discuta si attivino queste parti del cervello inconscio nella persona in stato vegetativo».
Il cervello inconscio che racchiude i vissuti arcaici può essere “risvegliato” anche quando la persona è pienamente in vita?
«Sì. Altrimenti non si spiegherebbero i sogni e i lapsus. Il mondo è tutto da esplorare».
Che ruolo ha avuto per lei Freud?
«Ho lavorato molto su Freud, ma in un certo periodo l’ho abbandonato per sostenere la teoria fornariana. Sono stato assistente di Franco Fornari a Trento. Era un grande psicoanalista che ha avuto il merito di portare in Italia una teoria inglese (di Anna Freud, Melanie Klein) che andasse oltre Freud. Non avevano abbandonato la teoria freudiana ma l’avevano trasformata nella relazione. Anziché partire dall’impulso, siamo passati al concetto di relazione. Io credo che non si possa smentire la teoria freudiana, ma lo stesso Freud prefigurava che in futuro la sua teoria sarebbe stata superata da studi più approfonditi. Questa qui è la più importante nell’ambito delle relazioni arcaiche».
Lo psicologo può avere un ruolo che vada oltre la compassione?
«Sì. Lo psicologo deve avere compassione all’interno di un setting terapeutico. L’errore e il pericolo che può essere fatto da un terapeuta è quello di entrare in collisione con il dolore dell’altro, perché ciascuno di noi è portatore di qualche forma di sofferenza. Si può capire il dolore altrui, ma bisogna comunque distaccarsi per formare una dialettica. Il disastro di molti psicoterapeuti è quello di aver voluto fin da subito di mettersi sul campo senza adeguati anni e anni di studi. È un compito estremamente difficile».
Lei ha anche insegnato in varie università del mondo: Boston, San Paolo, Washington, Melbourne
«Sì a Melbourne sono stato cinque volte. Io andavo sempre a Melbourne perché in quegli anni (anni ’90 ndr) non c’era lo scambio che esiste oggi. A Padova avevano degli scambi con Melbourne e Sydney, ma bisognava rimanere almeno tre mesi e non c’era nessuno che poteva allontanarsi per via familiare, e allora mandavano me (ride ndr)».
Qual è stata l’esperienza più significativa?
«La più significativa è stata quella di Washington alla Georgetown University. Ma anche a Boston devo dire. Oltre alla Boston University, andavo alla Harvard e al MIT. Alla Harvard cosi come alla Boston University dove ho trovato libri miei».
È stato anche a San Paolo in Brasile e a Lima in Perù
«Sì, San Paolo è stata la mia prima esperienza, anche se sono stato più a Rio de Janeiro. È avvenuto in occasione di un giro d’insegnamento fra varie università: Rio de Janeiro, San Paolo e Belo Horizonte.
Sono stato molto tempo anche a Lima. Sono andato in Perù perché un cappuccino era stato fatto vescovo in una delle cinque diocesi di Lima. Era nella parte nord della città, la periferia più povera. Questo cappuccino di Genova mi aveva chiesto di andare giù con lui per costruire una piccola facoltà di psicologia. Lì non c’era nulla, né soldi né libri. Inizialmente si pensava di costruire una facoltà di psicologia, ma era impossibile per la mancanza di soldi.
Il primo ministro peruviano era medico e l’hanno preso come decano della facoltà di Scienze Mediche e psicologia è diventato un corso di questa laurea. Sono andato giù quattro volte riuscendo a inviare una decina di docenti, ma appena sono andato via si è perso il controllo. In quei posti bisogna rimanere stabilmente. L’idea era di sviluppare le menti e le facoltà delle persone più povere per dar loro un futuro, ma la facoltà è rimasta esclusiva dell’élite. Io avevo preparato una dottoressa di ricerca peruviana affinché rimanesse lì, ma non ha accettato».
Lei non ha mai pensato di stabilirsi permanentemente all’estero?
«No, perché ho vinto la cattedra abbastanza presto a Padova, anche se a Oxford mi avevano chiesto di rimanere. Non ho mai pensato di fare il missionario. Mi è piaciuta l’esperienza di Lima perché è stata molto affascinante, ma fin da bambino volevo fare il ricercatore scientifico».
Ha collaborato con molte università di spicco internazionale: Oxford, Harvard University, Georgetown University (Washington), Boston University e Melbourne University.
Persona di immensa sapienza nel campo delle neuroscienze, in questa lunga intervista ci racconta del suo ultimo libro “Compassione”, di alcuni suoi progetti di ricerca e delle sue esperienze internazionali.
Erminio Gius, sacerdote e frate francescano cappuccino, è ricercatore, psicologo e docente di Psicologia Sociale presso l’Università di Padova.
Ha collaborato con molte università di spicco internazionale: Oxford, Harvard University, Georgetown University (Washington), Boston University e Melbourne University.
Persona di immensa sapienza nel campo delle neuroscienze, in questa lunga intervista ci racconta del suo ultimo libro “Compassione”, di alcuni suoi progetti di ricerca e delle sue esperienze internazionali.
Unisce il rigore scientifico di un ricercatore ad una profonda umanità e spirito di accoglienza tipici della vocazione religiosa.
È nato 81 anni fa a Malosco in val di Non e la sua «avventura» inizia con la Licenza in Teologia nella Pontificia Università Lateranense di Roma nel 1966 e nell’Ateneo di Padova dove si forma alla scuola di Carlo Diano, Marino Gentile, Dino Formaggio e Paolo Bozzi con il quale si laurea in Filosofia nel 1970.
È autore di ben 27o pubblicazioni e nel 2002 è stato nominato “Trentino dell’anno: Una vita per la cultura”.
È membro del Comitato Consultivo di Bioetica della Regione Veneto e Presidente del Comitato etico per le attività sanitarie dell’Azienda Provinciale per i Servizi Sanitari della Provincia Autonoma di Trento
Ci spieghi del suo ultimo libro “Compassione”
«Nell’Antico Testamento si sovrappone Misericordia e Compassione. L’essenza di Dio è la misericordia. Come ricercatore sono convinto che l’uomo non è misericordioso. Egli non è stato progettato per la misericordia, ma per la sua conservazione. Prova ad accedere all’ambito della misericordia perché la sua mente è compassionevole. Nel libro ci sono quindi due tematiche: il dolore (la nostra mente sente ed avverte il dolore altrui) e la compassione. La tesi fondamentale è che l’uomo non è misericordioso, bensì compassionevole.
Sulla base di questo c’è un prologo che utilizza l’Antico Testamento per parlare di compassione dal punto di vista epistemologico. Si basa sulla fondazione della dialettica e sulla libertà della persona. Punto d’inizio è la disobbedienza di Adamo ed Eva, che ha permesso all’uomo di poter accedere alla conoscenza diversamente dal paradiso terrestre».
È quindi una conoscenza improntata principalmente sull’agire dell’uomo?
«Sì. È una conoscenza della propria identità e realtà. Nel momento in cui è accaduto il peccato originale, Dio va a cercare Adamo, che preferisce nascondersi. È lì che l’uomo scopre la differenza di genere e la vergogna intesa come precarietà e fragilità».
Come è strutturato il libro?
«Il libro è strutturato in due parti: la prima parte è una trilogia (tre capitoli) che riguarda le dinamiche intrafamiliari. È una rappresentazione completa di come la compassione agisca all’interno delle relazioni familiari. Prendo come spunto la parabola del figliol prodigo e il quadro di Rembrandt “Ritorno del figliol prodigo (nel quadro c’è l’immagine del padre che poggia due mani sul figliol prodigo, una mano maschile e una femminile, con il significato della compresenza).
Il primo capitolo è quindi il problema dell’attaccamento e della compassione. Il secondo capitolo riguarda il potere e l’autorità rappresentata dalla figura paterna (il dilemma del dover cambiare/non poter cambiare), e il terzo capitolo è sul figlio maggiore (nel dipinto di Rembrandt è disegnato come una figura distaccata). Il significato che assume nel quadro, così come nel libro, rappresenta la pluralità dei rapporti e la resistenza al cambiamento.
Nella seconda parte prendo come spunto la parabola del buon samaritano. Questa parte riguarda quattro capitoli che sono il frutto del lavoro sulle neuroscienze e sulla ricerca prosociale.
Parlo del tema della giustizia, e in particolare sul dilemma se sia meglio il buono o il giusto. C’è inoltre uno sguardo sul dolore innocente, in particolare la compassione come possibilità di una carta etica ideale mondiale che regoli i rapporti intrapersonali».
Quindi la compassione può ridurre il dolore esistenziale?
«Si, la compassione diventerebbe terapia».
Questa sofferenza deriva da un agire dell’uomo problematico e senza linee guida?
«Sì. Io lavoro utilizzando le categorie psicoanalitiche, non con lo sguardo di un sociologo, ma di un ricercatore che indaga i lati oscuri della mente. Quelli che impediscono alla compassione di essere autentica. C’è una parte nel libro che si intitola “i lati oscuri della mente” dove dico che, lì dove apparentemente possa esserci compassione, ci sono aspetti interiori devastanti da quelle persone che controllano sé stessi attraverso atti compassionevoli.
Questo libro è stato per me come una specie di testamento accademico, perché penso che il tema della compassione sia l’unico tema che può essere introdotto per regolare i rapporti».
Lei si è occupato anche di altri temi come l’omosessualità
«Sì. Ho attraversato molti temi di attualità e di cui sono stato antesignano. Sull’omosessualità sono stato il primo a parlarne, perché al tempo, era il 1972, non se ne parlava. Non era nemmeno conosciuto. In teologia c’era un capitolo sulla perversione, ma non c’erano testi in italiano. Ho lavorato a Oxford dove mi avevano chiesto di interessarmi a questa tematica. Ho sviluppato questo tema con un po’ di innocenza (ride ndr); oggi non lo affronterei più perché sta avendo uno sviluppo troppo complesso. La Sacra Rota di Roma lo accolse molto bene, e mi chiesero di andare oltre: di lavorare sugli aspetti dell’omosessualità come un impedimento dirimente in matrimonio (non può esserci il matrimonio)».
Parlare di omosessualità nell’ambito religioso poteva essere un problema per lei?
«Si. Il lavoro è stato però accettato e molto apprezzato. È stato un libro di aiuto per molti omosessuali visto che la società non li accettava. Io non ho mai avuto problemi ad affrontare queste tematiche, perché sono dell’idea che per essere religioso bisogna avere anche una maturità scientifica».
Questo libro è stato fatto per far vedere loro che potevano essere compresi?
«Sì, infatti è stato accettato soprattutto per questo fatto. Ho avuto un contenimento umanistico».
È stato antesignano di altre tematiche?
«Sì. A Trento mi avevano incaricato di fare una ricerca sulla condizione giovanile della tossicodipendenza. Allora (meta anni ‘70) anche di questo tema non si sapeva nulla. Ho dovuto lavorare a vista.
Inoltre sono stato sollecitato, anche se non volevo, ad accettare un incarico sull’interruzione di gravidanza (aborto). Non lo volevo accettare perché qualsiasi realtà che sarebbe uscita fuori dalla mia ricerca ero convinto non venisse presa in considerazione in quanto prete. In realtà è stata una bellissima ricerca dal punto di vista psicodinamico, e il libro si chiama “Maternità negata”. È stato fatto tramite delle interviste con alcune donne. Il tutto accompagnato da una letteratura fantasmatica.
La terza ricerca è stata fatta sull’AIDS. Ho sviluppato questa ricerca prendendo due quotidiani italiani (Il Corriere della sera e La Repubblica)e alcune riviste internazionali, e ho fatto un’analisi del contenuto nell’arco di 4 anni di tutti gli articoli che parlassero di AIDS. Volevo capire qual era l’immagine che la gente si faceva. Ho scoperto che al tempo era paragonata alla peste. Il libro frutto delle ricerche si intitola “AIDS. Una realtà inquietante”.
Un altro aspetto che ho trattato è la condizione delle persone in stato vegetativo. È stata la prima ricerca internazionale fatta in tre anni e ha riguardato come i familiari stretti vivano e modifichino il loro vissuto con un familiare in stato vegetativo. È una realtà sospesa, che noi non conosciamo per niente. Si parla di minimi stati di coscienza.
A questa ricerca ho lavorato con 13 ricercatori, e avevo ricevuto circa 400mila euro, troppo pochi per un progetto del genere. Questa ricerca ha misurato i processi di cambiamento nel tempo di quei vissuti sospesi, e i familiari anticipavano sul personale quello che sarebbe il vissuto del marito. È stata molto utile perché ha dato uno sguardo sulla gestione di queste realtà. Quello che stiamo studiando ora con l’Università di Padova riguarda il capire che tipo di linguaggio possa esistere in queste persone. La mia ipotesi è questa: noi parliamo di cervello inconscio per intendere quella parte di cervello che prende su di sé i vissuti arcaici. È probabile che quando la moglie parli o discuta si attivino queste parti del cervello inconscio nella persona in stato vegetativo».
Il cervello inconscio che racchiude i vissuti arcaici può essere “risvegliato” anche quando la persona è pienamente in vita?
«Sì. Altrimenti non si spiegherebbero i sogni e i lapsus. Il mondo è tutto da esplorare».
Che ruolo ha avuto per lei Freud?
«Ho lavorato molto su Freud, ma in un certo periodo l’ho abbandonato per sostenere la teoria fornariana. Sono stato assistente di Franco Fornari a Trento. Era un grande psicoanalista che ha avuto il merito di portare in Italia una teoria inglese (di Anna Freud, Melanie Klein) che andasse oltre Freud. Non avevano abbandonato la teoria freudiana ma l’avevano trasformata nella relazione. Anziché partire dall’impulso, siamo passati al concetto di relazione. Io credo che non si possa smentire la teoria freudiana, ma lo stesso Freud prefigurava che in futuro la sua teoria sarebbe stata superata da studi più approfonditi. Questa qui è la più importante nell’ambito delle relazioni arcaiche».
Lo psicologo può avere un ruolo che vada oltre la compassione?
«Sì. Lo psicologo deve avere compassione all’interno di un setting terapeutico. L’errore e il pericolo che può essere fatto da un terapeuta è quello di entrare in collisione con il dolore dell’altro, perché ciascuno di noi è portatore di qualche forma di sofferenza. Si può capire il dolore altrui, ma bisogna comunque distaccarsi per formare una dialettica. Il disastro di molti psicoterapeuti è quello di aver voluto fin da subito di mettersi sul campo senza adeguati anni e anni di studi. È un compito estremamente difficile».
Lei ha anche insegnato in varie università del mondo: Boston, San Paolo, Washington, Melbourne
«Sì a Melbourne sono stato cinque volte. Io andavo sempre a Melbourne perché in quegli anni (anni ’90 ndr) non c’era lo scambio che esiste oggi. A Padova avevano degli scambi con Melbourne e Sydney, ma bisognava rimanere almeno tre mesi e non c’era nessuno che poteva allontanarsi per via familiare, e allora mandavano me (ride ndr)».
Qual è stata l’esperienza più significativa?
«La più significativa è stata quella di Washington alla Georgetown University. Ma anche a Boston devo dire. Oltre alla Boston University, andavo alla Harvard e al MIT. Alla Harvard cosi come alla Boston University dove ho trovato libri miei».
È stato anche a San Paolo in Brasile e a Lima in Perù
«Sì, San Paolo è stata la mia prima esperienza, anche se sono stato più a Rio de Janeiro. È avvenuto in occasione di un giro d’insegnamento fra varie università: Rio de Janeiro, San Paolo e Belo Horizonte.
Sono stato molto tempo anche a Lima. Sono andato in Perù perché un cappuccino era stato fatto vescovo in una delle cinque diocesi di Lima. Era nella parte nord della città, la periferia più povera. Questo cappuccino di Genova mi aveva chiesto di andare giù con lui per costruire una piccola facoltà di psicologia. Lì non c’era nulla, né soldi né libri. Inizialmente si pensava di costruire una facoltà di psicologia, ma era impossibile per la mancanza di soldi.
Il primo ministro peruviano era medico e l’hanno preso come decano della facoltà di Scienze Mediche e psicologia è diventato un corso di questa laurea. Sono andato giù quattro volte riuscendo a inviare una decina di docenti, ma appena sono andato via si è perso il controllo. In quei posti bisogna rimanere stabilmente. L’idea era di sviluppare le menti e le facoltà delle persone più povere per dar loro un futuro, ma la facoltà è rimasta esclusiva dell’élite. Io avevo preparato una dottoressa di ricerca peruviana affinché rimanesse lì, ma non ha accettato».
Lei non ha mai pensato di stabilirsi permanentemente all’estero?
«No, perché ho vinto la cattedra abbastanza presto a Padova, anche se a Oxford mi avevano chiesto di rimanere. Non ho mai pensato di fare il missionario. Mi è piaciuta l’esperienza di Lima perché è stata molto affascinante, ma fin da bambino volevo fare il ricercatore scientifico».
Perchè
|
Prima Pagina vuole essere un momento di approfondimento, con articoli tematici, in evidenza per una settimana. Questa pagina si arricchisce dell'interviste ai personaggi famosi del mondo della psicologia.
Tanti altri articoli di approfondimento si possono leggere nel Blog. |